martedì 25 novembre 2008

Danza Araba: un'esperienza occidentale

La mia prima immagine della danza è legata ad un carillon che mia madre teneva nella sua camera. Ero molto piccola. Ricordo la semioscurità della stanza, l’odore delle lenzuola pulite e una minuscola ballerina che, aperto il coperchio della scatola magica, si alzava e iniziava a girare su se stessa al ritmo di un valzer. Oggi quel carillon è nella mia camera. La ballerina non c’è più. Ma il ricordo di quella immagine suscita ancora in me magia e stupore, come a cinque anni.
La danza della vita ha lasciato traccia di sé non solo nella memoria, ma anche sul mio corpo. Danzare è per me vivere, respirare, ricordare, sentire, interrogarsi, insomma, esserci. Esserci, ovvero trovare il proprio centro e quindi ripercorrere la trama di avvenimenti personali ed artistici che mi hanno costituita. Ho intrapreso questo percorso a ritroso insieme a mia figlia Gaia, che condivide la sua ricerca con la mia.
Se mi guardo indietro, non riesco a quantificare le ore che ho passato sul pavimento di una classe di danza. Ho cercato la perfezione del movimento, spingendomi con ostinazione verso il virtuosismo; ma ogni passo, ogni gesto mi spingevano a cercare il senso di quello che facevo, al di là della perfezione tecnica. Poesia, stupore, magia sono state e continuano ad essere le parole-chiave del mio danzare e mi hanno portato a radicarlo nel teatro. Ho ricevuto una formazione accademica viziata dal perfezionismo delle linee del balletto e dalla ricerca del senso coreografico del contemporaneo; mi sono nutrita di arte contemporanea anche nella vita privata, durante gli anni di matrimonio con un pittore-scultore. Tutto ciò, unito al richiamo di poesia, magia e stupore, mi ha condotto ad andare sempre in scena come attrice-danzatrice, e, anche nell’insegnare, non ho mai potuto escludere nulla di quanto ho sperimentato e vissuto: la ricerca formale e l’espressività; il gesto e il suo senso nascosto.
Fondamentale è stato l’incontro con Kassim Bayatly e il Teatro dell’Arcano. Mi sono trovata immersa in un tempo scandito non dalle rappresentazioni, ma dalla ricerca e dall’assimilazione; un laboratorio durato 12 anni, durante il quale, io e Kassim, abbiamo lavorato per una crescita nel teatro e nella danza. E’ stato in quel periodo che ho conosciuto, rielaborato, e insegnato con lui la danza araba.
Nel corso di 16 anni di insegnamento, ho studiato e sviscerato ogni movimento, l’ho fatto a piccoli pezzi e l’ho rimontato, amplificandolo, rimpiccolendolo, dandogli scansioni energetiche diverse, fino ad avere un risultato più vasto rispetto alla danza del ventre tradizionale, senza tuttavia toglierle le sue caratteristiche essenziali
Questo scomporre e ricomporre gli schemi tradizionali della danza araba continua tuttora e trova una sua sintesi nell’unione dinamica di danza e teatro concependo la danza come poesia. Una poesia costituita non da parole e fonemi, ma da gesti e suggestioni originati dal movimento del corpo. Ma perché il rapporto danza-poesia non cada in una sorta di vago immaginario romantico, è necessario saper incarnare nel movimento il linguaggio poetico, che è ritmo, metafora, immagine, similitudine, allusione. Solo un corpo sapiente può diventare poetico e colpire non più unicamente lo sguardo dello spettatore, bensì le sue viscere e il suo intelletto, mettendolo finalmente in grado non solo di guardare uno spettacolo, ma anche di vedere parti di sé e della realtà, altrimenti celate nella vita. Corpo sapiente significa dunque tecnica raffinata e solidissima, sulla quale contare in ogni momento e situazione, aperta al linguaggio artistico, capace di donare alla ricerca di perfezione della danza sensibilità e intelligenza.
Esiste un modello stereotipato della danza del ventre nell’immaginario collettivo sia degli arabi che degli occidentali ed è incarnata nella figura della danzatrice esotica ed erotica. Questo, nonostante dagli anni Trenta ad oggi siano stati fatti tentativi da parte di numerose danzatrici di qualificarla, ma senza riuscire a superare lo stereotipo, legittimato da un apparente interesse per la tradizione o per culture diverse. In realtà, l’immagine oggi conosciuta della danza araba è circoscritta a quella di un’esibizione da intrattenimento. Inoltre c’è molta leggerezza nell’’affrontare lo spettacolo, spesso poco lavorato e vuoto di contenuti. Non esiste più la pazienza di aspettare che un corpo e una mente siano formati per la danza, per la verità ci sono pochi insegnanti che sappiano veramente dare un orientamento costruttivo ai loro allievi, che siano capaci di infondere rispetto per questa arte, e far capire la responsabilità che si cela dietro uno spettacolo, è vero che la danza araba “tradizionale” si lascia imparare più facilmente di altre danze, ma vuole, comunque, il suo tempo di elaborazione e assimilazione, altrimenti quella che è una danza elegante,unica per la sua segmentazione estrema, per i movimenti del bacino, e che esalta la donna nella sua essenza, perde il suo valore e ugualmente chi la danza.
Trasmettere un’arte come la danza del ventre, se ci sono finalità diverse dalla semplice esibizione, è stata per me un’operazione complessa, che ritengo essere ancora oggi non compiuta, ma in continua evoluzione.
Un ostacolo che ho dovuto affrontare è stato il fraintendimento di questa particolare forma di danza in nome della tradizione. “Ripetere la tradizione così com’è approfondendone lo studio filologico, conservativo e restaurato, significa bloccare ogni tipo di ricerca e di sviluppo individuale, ostacolando l’evoluzione della tradizione stessa”. “La tradizione”, dice Kassim Bayatly, “è simile ad un tappeto sul quale camminiamo e ci sediamo; un tappeto intessuto visibilmente e tangibilmente, con forme e colori riconoscibili del nostro mondo immaginario e della simbologia della nostra cultura”.
Così un occidentale, appartenendo ad altra tradizione e avendo una diversa memoria individuale, potrà ricercare, a livello artistico, nell’ambito dei principi simili della danza nelle diverse culture (come ad esempio :articolazione del corpo, movimento, equilibrio,tempo-spazio, tempo-ritmo,tempo-peso), tentando di unire ad un lavoro personale sulle diverse tecniche l’approfondimento del dinamismo e del linguaggio del corpo. Tutto ciò comporta l’aver assimilato la propria cultura e aver conosciuto quella dell’altro in maniera tale che gesti e movimenti si fondano naturalmente e non meccanicamente nel corpo di un danzatore.

tratto dal libro "la danza del ventre" ed. Gremese scritto da Roberta Bongini e Gaia Scuderi

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