Un’esperienza occidentale
La
mia prima immagine della danza è legata ad un carillon che mia madre
teneva nella sua camera. Ero molto piccola. Ricordo la semioscurità
della stanza, l’odore delle lenzuola pulite e una minuscola
ballerina che, aperto il coperchio della scatola magica, si alzava e
iniziava a girare su se stessa al ritmo di un valzer. Oggi quel
carillon è nella mia camera. La ballerina non c’è più. Ma il
ricordo di quella immagine suscita ancora in me magia e stupore, come
a cinque anni.
La
danza della vita ha lasciato traccia di sé non solo nella memoria,
ma anche sul mio corpo. Danzare è per me vivere, respirare,
ricordare, sentire, interrogarsi, insomma, esserci. Esserci, ovvero
trovare il proprio centro e quindi ripercorrere la trama di
avvenimenti personali ed artistici che mi hanno costituita. Ho
intrapreso questo percorso a ritroso insieme a mia figlia Gaia, che
condivide la sua ricerca con la mia.
Se
mi guardo indietro, non riesco a quantificare le ore che ho passato
sul pavimento di una classe di danza. Ho cercato la perfezione del
movimento, spingendomi con ostinazione verso il virtuosismo; ma ogni
passo, ogni gesto mi spingevano a cercare il senso di quello che
facevo, al di là della perfezione tecnica. Poesia, stupore, magia
sono state e continuano ad essere le parole-chiave del mio danzare e
mi hanno portato a radicarlo nel teatro. Ho ricevuto una formazione
accademica viziata dal perfezionismo delle linee del balletto e dalla
ricerca del senso coreografico del contemporaneo; mi sono nutrita di
arte contemporanea anche nella vita privata, durante gli anni di
matrimonio con un pittore-scultore. Tutto ciò, unito al richiamo di
poesia, magia e stupore, mi ha condotto ad andare sempre in scena
come attrice-danzatrice, e, anche nell’insegnare, non ho mai potuto
escludere nulla di quanto ho sperimentato e vissuto: la ricerca
formale e l’espressività; il gesto e il suo senso nascosto.
Fondamentale
è stato l’incontro con Kassim Bayatly e il Teatro dell’Arcano.
Mi sono trovata immersa in un tempo scandito non dalle
rappresentazioni, ma dalla ricerca e dall’assimilazione; un
laboratorio durato 12 anni, durante il quale, io e Kassim, abbiamo
lavorato per una crescita nel teatro e nella danza. E’ stato in
quel periodo che ho conosciuto, rielaborato, e insegnato con lui la
danza araba.
Nel
corso di 16 anni di insegnamento, ho studiato e sviscerato ogni
movimento, l’ho fatto a piccoli pezzi e l’ho rimontato,
amplificandolo, rimpiccolendolo, dandogli scansioni energetiche
diverse, fino ad avere un risultato più vasto rispetto alla danza
del ventre tradizionale, senza tuttavia toglierle le sue
caratteristiche essenziali
Questo
scomporre e ricomporre gli schemi tradizionali della danza araba
continua tuttora e trova una sua sintesi nell’unione dinamica di
danza e teatro concependo la danza come poesia. Una poesia costituita
non da parole e fonemi, ma da gesti e suggestioni originati dal
movimento del corpo. Ma perché il rapporto danza-poesia non cada in
una sorta di vago immaginario romantico, è necessario saper
incarnare nel movimento il linguaggio poetico, che è ritmo,
metafora, immagine, similitudine, allusione. Solo un corpo
sapiente
può diventare poetico e colpire non più unicamente lo sguardo
dello spettatore, bensì le sue viscere e il suo intelletto,
mettendolo finalmente in grado non solo di guardare uno spettacolo,
ma anche di vedere parti di sé e della realtà, altrimenti celate
nella vita. Corpo sapiente significa dunque tecnica raffinata e
solidissima, sulla quale contare in ogni momento e situazione, aperta
al linguaggio artistico, capace di donare alla ricerca di perfezione
della danza sensibilità e intelligenza.
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