mercoledì 9 ottobre 2013

Riflessioni e pratica della più affascinante danza araba

Un’esperienza occidentale




La mia prima immagine della danza è legata ad un carillon che mia madre teneva nella sua camera. Ero molto piccola. Ricordo la semioscurità della stanza, l’odore delle lenzuola pulite e una minuscola ballerina che, aperto il coperchio della scatola magica, si alzava e iniziava a girare su se stessa al ritmo di un valzer. Oggi quel carillon è nella mia camera. La ballerina non c’è più. Ma il ricordo di quella immagine suscita ancora in me magia e stupore, come a cinque anni.
La danza della vita ha lasciato traccia di sé non solo nella memoria, ma anche sul mio corpo. Danzare è per me vivere, respirare, ricordare, sentire, interrogarsi, insomma, esserci. Esserci, ovvero trovare il proprio centro e quindi ripercorrere la trama di avvenimenti personali ed artistici che mi hanno costituita. Ho intrapreso questo percorso a ritroso insieme a mia figlia Gaia, che condivide la sua ricerca con la mia.
Se mi guardo indietro, non riesco a quantificare le ore che ho passato sul pavimento di una classe di danza. Ho cercato la perfezione del movimento, spingendomi con ostinazione verso il virtuosismo; ma ogni passo, ogni gesto mi spingevano a cercare il senso di quello che facevo, al di là della perfezione tecnica. Poesia, stupore, magia sono state e continuano ad essere le parole-chiave del mio danzare e mi hanno portato a radicarlo nel teatro. Ho ricevuto una formazione accademica viziata dal perfezionismo delle linee del balletto e dalla ricerca del senso coreografico del contemporaneo; mi sono nutrita di arte contemporanea anche nella vita privata, durante gli anni di matrimonio con un pittore-scultore. Tutto ciò, unito al richiamo di poesia, magia e stupore, mi ha condotto ad andare sempre in scena come attrice-danzatrice, e, anche nell’insegnare, non ho mai potuto escludere nulla di quanto ho sperimentato e vissuto: la ricerca formale e l’espressività; il gesto e il suo senso nascosto.
Fondamentale è stato l’incontro con Kassim Bayatly e il Teatro dell’Arcano. Mi sono trovata immersa in un tempo scandito non dalle rappresentazioni, ma dalla ricerca e dall’assimilazione; un laboratorio durato 12 anni, durante il quale, io e Kassim, abbiamo lavorato per una crescita nel teatro e nella danza. E’ stato in quel periodo che ho conosciuto, rielaborato, e insegnato con lui la danza araba.
Nel corso di 16 anni di insegnamento, ho studiato e sviscerato ogni movimento, l’ho fatto a piccoli pezzi e l’ho rimontato, amplificandolo, rimpiccolendolo, dandogli scansioni energetiche diverse, fino ad avere un risultato più vasto rispetto alla danza del ventre tradizionale, senza tuttavia toglierle le sue caratteristiche essenziali

Questo scomporre e ricomporre gli schemi tradizionali della danza araba continua tuttora e trova una sua sintesi nell’unione dinamica di danza e teatro concependo la danza come poesia. Una poesia costituita non da parole e fonemi, ma da gesti e suggestioni originati dal movimento del corpo. Ma perché il rapporto danza-poesia non cada in una sorta di vago immaginario romantico, è necessario saper incarnare nel movimento il linguaggio poetico, che è ritmo, metafora, immagine, similitudine, allusione. Solo un corpo sapiente può diventare poetico e colpire non più unicamente lo sguardo dello spettatore, bensì le sue viscere e il suo intelletto, mettendolo finalmente in grado non solo di guardare uno spettacolo, ma anche di vedere parti di sé e della realtà, altrimenti celate nella vita. Corpo sapiente significa dunque tecnica raffinata e solidissima, sulla quale contare in ogni momento e situazione, aperta al linguaggio artistico, capace di donare alla ricerca di perfezione della danza sensibilità e intelligenza.

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